Ancora qualche mese per visitare il Padiglione albanese alla Biennale di Venezia: in Albanian Trilogy: A Series of Devious Stratagems l’artista Armando Lulaj (Tirana, 1980) ripercorre la memoria collettiva e le forme di potere dalla Guerra Fredda ai giorni nostri, esplorando le pieghe nascoste nella pagina scritta e riscritta della storia.

Dopo la partecipazione nel 2007 con Pensa con i sensi, senti con la mente – Arte al presente, Armando Lulaj torna a rappresentare il Padiglione albanese alla Biennale di Venezia con un corpus di tre video: It Wears as It Grows (2011), il già molto conosciuto Never (2012) e Recapitulation (2015).

Il Padiglione albanese sembra richiamare esattamente l’immagine evocata da Okwui Enwezor per descrivere All the World’s Futures, tema di questa 56° Biennale: l’Angelus Novus di Walter Benjamin, che pur con lo sguardo rivolto al passato è spinto vorticosamente verso il futuro senza possibilità di tornare indietro.

Ce lo racconta il curatore Marco Scotini in una lunga intervista che ci introduce nella terra delle aquile, svelandoci i suoi fantasmi e la sua storia.

Alessandra Ghinato: Quali sono i Devious stratagems presenti nella mostra?

Marco Scotini: Gli “stratagemmi equivoci” fanno riferimento ai modi con cui il potere comunista albanese cercava di giustificare il proprio ruolo nella Guerra Fredda. Lo stratagemma è quell’espediente astuto messo in atto per sorprendere un nemico o aggirare un ostacolo: non una strategia o un piano politico vero e proprio. La serie di “trofei” al centro di Albanian Trilogy rimanda sempre a delle mosse per educare l’opinione pubblica: il nome del leader carismatico inciso sulla pendice di un monte, la balena scambiata per un sottomarino nemico e la carcassa dello pseudo aereo-spia americano. Questo è un primo livello d’interpretazione, a cui si aggiungono gli stratagemmi di cui si è servito Lulaj per sviluppare i suoi tre progetti, come ad esempio il riposizionamento del nome del leader Enver Hoxha che, dopo anni, ritorna sì visibile ma in modo sbagliato oppure il tentativo di far volare il veivolo dell’ US Air Force. Ma soprattutto in Albanian Trilogy ci sono i trucchi del presente che subiamo giornalmente nell’epoca della comunicazione e dell’economia finanziaria. C’è al lavoro un’arte della persuasione che si rivela pazzesca, delirante.

Albanian Pavilion, photo adicorbetta

Padiglione Albania, foto adicorbetta

 

A.G: Quando hai conosciuto il lavoro di Lulaj e in cosa ti colpisce?

M.S: Lavoro con Lulaj da quindici anni e l’ho invitato a molte e importanti occasioni internazionali. Lulaj ha sempre risposto con la radicale ricerca di ciò che si nasconde dietro le cose, mettendo in mostra il livello ideologico. Non si tratta, per intendersi, di “dire la verità” ( “verità” è sempre una parola ingombrante) ma di “riconoscere la falsità” degli enunciati, delle storie, dei piani comunicativi. Ecco è questo livello “tragico”, questa sfida permanente,  un po’ l’elemento chiave di Lulaj.

A.G: Che storia raccontano i video esposti?

M.S: L’intero progetto nacque cinque anni fa con il primo video “It Wears As It Grows”. Allora andai anch’io a Tirana per partecipare allo shooting, in cui la riproduzione della carcassa di un cetaceo veniva trasportata in spalla come un feretro attraversando la città di Tirana, da Nord a Sud, da Est a Ovest. L’animale era stato al centro di un errore per cui era parso al largo delle coste albanesi come un sommergibile americano. Per questa ragione, come uno spettro di qualcosa, nel video veniva ripoliticizzato, restituito all’urbano che lo connotava intrinsecamente, dal Museo di Storia Naturale ricondotto ad un ipotetico museo di storia sociale.

Si tratta di un video performativo, mentre i due successivi alternano l’azione alla documentazione, l’immagine d’archivio alla presa sulla realtà. Al centro ci sono altri due eventi storici marginali ma tali da diventare emblematici di tutto un periodo, di una cultura che è quella moderna. “Never” del 2012 e “Recapitulation” concepito per la Biennale aggiungono due capitoli fondamentali.

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Padiglione Albania, foto adicorbetta

A.G: Come completano la narrazione gli altri oggetti esposti?

M.S: La relazione che nel padiglione si crea tra il vero scheletro del cetaceo, la serie dei settanta volumi firmati da Enver Hoxha e il video “Never” è davvero singolare. C’è una continuità spaziale e visiva che racconta più narrazioni  allo stesso tempo. Per esempio, la disposizione dei volumi corre parallela alla colonna vertebrale della balena e i ritratti del leader nei frontespizi sono sostituiti dalle vertebre dell’animale. Questa relazione percettiva trasforma l’animale nel simbolo del Leviatano di Hobbes, nel simbolo del potere statale moderno. Il video posto sopra la serie dei volumi non fa altro che ripetere, in forma alterata, la firma del leader, incrostata sulla dorsale del monte Shpiragu, anziché sulla pagina.

Questa è una delle associazioni che lo spazio-tempo del padiglione rende possibili. Ci sono altre associazioni non visibili scoperte nel montaggio della mostra. Mi riferisco ad una coincidenza straordinaria che racconto qui per la prima volta.

Come responsabile ufficiale del Museo di Storia Naturale di Tirana è venuto a Venezia Grigor Jorgo, un signore del ’51 che si è preso cura del rimontaggio dei pezzi del cetaceo. Fu un’esperienza particolare perché questo signore silenzioso che si aggirava nel padiglione con il camice bianco ci rimandava direttamente al periodo del socialismo. Ma non solo. Jorgo ci ha raccontato che ha cominciato ad occuparsi dell’animale solo dopo la caduta del comunismo e che prima era impiegato nel comitato di produzione editoriale dei libri di Hoxha. Il rapporto tra balena e leader continua dunque a tornare sotto diverse forme.

A.G: Quanto pesa la memoria storica nella gioventù albanese? E negli artisti che come Lulaj se ne fanno portavoce?

M.S: Per Lulaj, più che per altri delle generazioni precedenti, la memoria o la storia è una sorta di ossessione. C’è d’altra parte una ragione molto seria in questo fare i conti con il passato e che, in Lulaj, ha un carattere davvero singolare. Più che il passato sono i suoi fantasmi a ripresentarsi continuamente nel presente: lavorare su questo tema significa dunque operare sull’attualità cercando di demistificarne le false prospettive. Credo che l’Albania viva un momento di trasformazione molto interessante e che dunque le zavorre facciano solo bene al volo che vuole intraprendere.

Albanian Pavilion, photo adicorbetta

Padiglione Albania, foto adicorbetta

A.G:  Il tema dell’archivio è molto ricorrente nelle ultime esplorazioni artistiche, che ruolo assume nella tua ricerca curatoriale?

M.S: Sarebbe lungo riassumere in poche parole come questa pratica archivistica, che si affaccia nell’ambito dell’arte concettuale per la prima volta, sia ora diventata una modalità egemonica per fare e curare l’arte. Posso solo dire che ho cominciato ad usare l’archivio nel format di una mostra a partire dall’inizio del 2000, quando ancora era lontano dall’essere una moda come adesso. Ciò che ritengo interessante è che esso ci sottragga a una narrazione storica di tipo lineare. Non possiamo più fare costrutti solo immanenti all’oggetto che presentiamo, questa è la forza dell’archivio che dovrebbe essere anche la risorsa del curatore. Stiamo attenti che, attraverso un continuo uso improprio di questo strumento, ciò non diventi una debolezza.

A.G: La pubblicazione è parte della mostra, di cosa si tratta?

M.S: La pubblicazione non è un supplemento o un’appendice al Padiglione ma ne è parte integrante, lì compare l’archivio in senso proprio. Un paragrafo intero è stato dedicato alla costruzione di un atlante visivo in cui molte immagini e documenti escono per la prima volta dalle istituzioni di Stato diventando pubblici.  Vediamo l’arrivo di Khrushev in Albania, di Zhou Enlai, l’esposizione di pittura cinese del ’73, le esercitazioni militari…

Armando Lulaj, Albanian Trilogy, Is Wears As It Grows, courtesy the artist

Armando Lulaj, Albanian Trilogy, Is Wears As It Grows, courtesy l’artista

 

A.G: Quale reazione c’è stata dal pubblico internazionale, italiano  e albanese?

M.S: Dico solo che “The Guardian” ha inserito il padiglione albanese nella sua top 5 e anche “Il Corriere della sera” l’ha messo al secondo posto. Sulla ricezione locale – che è un ambito molto importante – aspettiamo la chiusura della Biennale per capire ciò che questa rappresentanza nazionale ha significato.

A.G: Con lo sguardo rivolto verso il passato, credi che si possa costruire il futuro?

M.S: Il presente è sempre colmo di passato (allo stato latente, potenziale). Se ne vogliamo liberare il futuro non possiamo fingere di ignorarne la presenza. Il tentativo di forzare il passato da parte di Lulaj è molto benjaminiano. È sempre una possibilità, qualcosa che incontriamo nell’ordinarietà. I modi sono quelli anche se le figure appaiono cambiate, per cui la domanda è: Come chiamare il nuovo Leviatano? Il Leviatano del futuro? Sempre che noi pensiamo che la libertà non sia qualcosa di già dato ma che spetti a noi praticarla, immaginarla, conquistarla.

Alessandra Ghinato

 

Cover image: Albanian Pavilion, photo adicorbetta

www.albanianpavilion.org

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