La vicenda giudiziaria che vede contrapposti Ritblat e Science LTD per la concessione del certificato di autenticità per un’opera effettivamente realizzata dall’artista Damien Hirst, ripropone un (apparente) paradosso.

Il tema non è nuovo, ad anticipare un elemento giuridico di nevralgica importanza nell’arte contemporanea, il certificato, ci pensarono sin dagli anni ’60 dello scorso secolo autori come Marcel Duchamp, George Brecht, Yves Klein o Sol LeWitt.

Quest’ultimo, in particolare, aveva concepito l’opera d’arte come un’idea, la c.d. “opera-idea”, totalmente svincolata dal manufatto e descritta solamente in un certificato contenente le istruzioni necessarie alla sua realizzazione.

L’”opera idea” si prestava ad essere realizzata materialmente più e più volte, e per questo l’artista decise di imporre la sua volontà e di vincolare in qualche modo l’estrinsecazione materica della sua opera. Lo fece ordinando la distruzione, ad ogni nuova produzione della sua “opera-idea”, della sua realizzazione precedente.

Il mezzo con cui gli fu possibile dettare la propria volontà fu il certificato.

Infatti, in assenza di uno specifico riferimento materiale come oggetto dell’opera, è il certificato stesso a divenire un elemento integrante dell’opera e, forse, perfino più importante di essa, almeno da un punto di vista giuridico.

Esso assolve a una duplice funzione, da una parte è lo strumento di istruzioni necessario alla realizzazione dell’opera, e, dall’altra, diviene il titolo legittimante della proprietà dell’opera.

Metaforicamente, si erige a una sorta di proiezione nello spazio e nel tempo della firma dell’artista sull’opera-idea, dematerializzata o dematerializzabile, e che viene realizzata di volta in volta.

Atelier Brancusi, Paris

Atelier Brancusi, Paris

In altre parole, nell’arte concettuale è il certificato ad incorporare l’opera e non viceversa. E’ uno stravolgimento dei paradigmi cui siamo abituati a fare riferimento: ora l’opera d’arte contemporanea di identifica con il suo certificato. E non è più la realizzazione materiale, o il possesso, di quest’ultima a rendere autentica l’opera d’arte contemporanea, come invece siamo abituati a pensare per i quadri di Leonardo o le sculture del Canova.

Non a caso Sol LeWitt aveva previsto che “The original certificate is required for sale the wall drawning”, in quanto esso rappresenta e dà fondamento giuridico all’originalità e all’unicità all’opera, erigendosi appunto al ruolo di firma dell’autore.

Le implicazioni pratiche del certificato sono note, basta ricordare che in una relativamente recente disputa giudiziaria fra la collezionista Steinkamp e la Galleria Rhona Hoffman, si è giunti a qualificare la perdita o la distruzione del certificato come equivalente alla perdita o alla distruzione di un quadro o di una scultura.

Tornando alla nota vicenda richiamata in apertura, appaiono quindi meno capricciose ed insensate le parole di un portavoce di Hirst, che ha dichiarato: “The ownership of a wall painting in the series titled ‘Wall Spots’ always resides with the owner of the ‘Wall Spots’ signed certificate which accompanies the art work”.

A prescindere dall’opinione personale, non si può omettere di rilevare come gli interessi contrapposi sono molteplici: vi sono quelli morali dell’artista, attinenti alla sua volontà; quelli del mercato, inteso nella sua dimensione di breve termine, che potrebbe essere in conflitto con quella di lungo termine; e quelli della collettività e della storia, che, magari vorrebbero poter ammirare l’alchimia dell’arte.

Danijela Radunkovic

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