Gli ultimi due decenni hanno visto una rapida crescita di interesse per il documento e l’archivio d’arte.
Ci sono artisti che ne fanno ricorso non solo adoperandoli come soggetto delle proprie opere, ma anche sul piano teorico, interpretandoli come sistema di relazioni, contenuti e forma. Marco Scotini, critico d’arte e curatore indipendente, studioso di architettura ed estetica, allievo di Ragghianti, opera nella direzione della divulgazione di un metodo che ha il valore aggiunto di far circolare nella disciplina legata all’archivio esigenze estetiche e critiche moderne.
Vorrei cominciare questa intervista introducendo il suo profilo di curatore. In particolare, da diversi anni nelle sue mostre materiali documentali dialogano con pratiche artistiche multidisciplinari, segnando un chiaro indirizzo di ricerca. Anche nell’attività di molti artisti si riscontra un interesse per il documento, con le relative possibilità di manipolazione. Quali sono le istanze estetiche e sociali che motivano, a suo avviso, questo rinnovato interesse?
Disobedience Archive è già stata ospitata da quindici musei internazionali e nasce a Berlino dieci anni fa quando ancora questa tendenza tassonomica in arte non aveva assunto l’aspetto preminente che riveste oggi. Mostre importanti incentrate sull’archivio come Interrupted Histories (curata da Zdenka Badovinac a Ljubljana) e Ground Lost (del collettivo WHW a Graz) sono del 2007 e dunque successive a Disobedience. Ma è a partire da Archive Fever di Okwui Enwezor, del 2008, che questo fenomeno si è incrementato a dismisura fino al Palazzo Encliclopedico per la scorsa Biennale di Venezia. Anche la mostra che ho appena curato per il PAV di Torino, Vegetation as a Political Agent, segue lo stesso approccio nell’unire lavori d’arte ad erbari del XIX secolo, pubblicazioni politiche a documenti scientifici. Dopo l’apertura portata dall’arte concettuale credo sia reazionario continuare a proporre mostre d’Arte, con la A maiuscola. Negli anni ’70 quello che viene esposto nei musei è soprattutto la documentazione di quanto è accaduto altrove, certificazioni, foto documentarie, pagine di giornali, ecc. Se questo è vero da un lato, dall’altro sempre più abbiamo scoperto che quelli che credevamo documenti e prove della realtà sono materiali artefatti. Dopo la caduta del muro di Berlino abbiamo avuto bisogno di riscrivere la storia: allora abbiamo fatto ricorso ad ogni tipo di materiale visivo, fuori dalle appartenenze disciplinari (cadute anch’esse, come il muro). Anche perché ormai l’Occidente (in senso culturale) ha perduto la sua centralità.
Le iniziative portate avanti alla NABA, di cui è direttore del Dipartimento Arti Visive, segnano un percorso in cui il tema di ricostruire la memoria attraverso l’archivio e di raccontare la storia tramite la pratica artistica ha ritrovato una nuova centralità; ad esempio, il libro “Politiche della memoria”, da lei curato assieme ad Elisabetta Galasso, ha indagato con lucidità i modi in cui i dati vengono registrati, accumulati, archiviati. Può condividere con i lettori gli argomenti del vostro lavoro?
Non solo come curatore ma anche nelle vesti di direttore di una istituzione per la formazione artistica, ho sentito la necessità di importare questo metodo archivistico come pedagogia. Tutti gli artisti o filmmaker che ora si ritrovano riuniti nel volume Politiche della Memoria, hanno tenuto le loro lezioni in NABA per cinque anni. Si tratta di una serie di figure straordinarie che preferisco chiamare “archeologi del presente” perché non raccontano propriamente la nostra storia (se con storia si intende quella lineare, irreversibile e teleologica della Modernità) ma, piuttosto, riscrivono la memoria, praticano un’arte della ripetizione. Come ho detto più volte, questi archeologi lavorano sul tempo ma anche contro il tempo, in favore di un tempo a venire. Che significa? Che non riescono a vedere il passato come qualcosa di concluso o di inamovibile, ma come una virtualità, come un potenziale sempre presente. Quando noi diciamo la parola “oggi” convochiamo anche tutto un mondo di possibilità del passato (ciò che sarebbe potuto essere, i suoi tentativi mancati, le sue possibilità perdute).

Elisabetta Galasso, Marco Scotini, Politiche della memoria. Documentario e archivio, Edizioni Derive e Approdi, Collana Labirinti, 2013
In qualità di storico dell’arte è responsabile dell’Archivio Gianni Colombo e recentemente, durante un suo intervento pubblico presso Open Care, ha posto l’accento sulla questione di come ripensare l’archivio storico stabilendone il “paradigma estetico”. Quale forma può prendere questa accezione in relazione al suo percorso critico?
Ho iniziato a curare l’Archivio Gianni Colombo nel 2004 e la mia preoccupazione non è stata solo quella di inventariare documenti e conservare opere d’arte. Più che a un deposito (disciplinato e ordinato) ho pensato ad un dispositivo che, tenendo insieme differenti piani di ricerca, consentisse a me, che non avevo conosciuto personalmente Colombo, una riscrittura dell’autore e una sua valorizzazione (che poi di fatto c’è stata ed è ora sotto gli occhi di tutti). Dunque anche in questo caso non mi sono servito tanto di un paradigma scientifico ma di uno estetico. L’idea è quella di un archivio performativo, di uno ‘spazio elastico’, verrebbe da dire parafrasando Gianni. Uno strumento da usare in differenti modi e che lavora su più livelli, e che tiene nello stesso conto documenti, fotografie, sculture, progetti e modelli di ambienti. A proposito del paradigma estetico mi viene in mente un episodio. Anni fa scrissi un testo su Gianni Colombo, uno dei primi che ho fatto, dal titolo “Spettatore che scende le scale”. Era una rilettura di una “Bariestesia” fatta per la rampa di scale della Galleria Hoffmann a Friedberg nel 1975. Gli sovrapponevo la tavola di Nu descendant un escalier di Duchamp del 1912. Solo pochi mesi fa è stato ritrovato dalla galleria tedesca il progetto di Colombo per quell’intervento in situ: un disegno bellissimo con prospetto e alzata della scala sopra cui Gianni aveva incollato, con la tecnica del fotocollage, la fotocopia del soggetto di Duchamp! Che dire della filologia, dunque?
Se parlassimo di archiviazione non esclusivamente come storicizzazione del passato, ma come pratica rivolta al contemporaneo, che si intreccia a valori di riflessione critica, oltre che di tutela e promozione, i processi di archiviazione da parte dell’artista stesso o del curatore potrebbero trovarsi al centro del sistema dell’arte e del suo mercato, della creatività e del rapporto con il pubblico. Esiste, secondo lei, un’esigenza di archiviare il contemporaneo? In quali forme e modalità questa tipologia di archivio potrebbe diventare motore del processo di conoscenza?
L’archivio, per statuto, ha un carattere empirico, pratico e la sua esistenza è sempre temporanea. Nell’epoca dei database digitali e dei network informatici, l’archivio è quel modello maggiormente in grado di dar conto di una molteplicità reticolare, eterogenea e dispersa, ad anelli aperti, con durate variabili. Attraverso l’archivio non si tratta solo di contare, quindi, ma di raccontare, ogni volta in modo differente e discontinuo, relazioni di potere, di sapere e di soggettività. Si tratta di de-archiviare e re-archiviare continuamente il materiale. Rispetto al carattere ideale dello storico, quello dell’obiettività e dell’esattezza dei fatti, l’archivista ha a che fare con una costruzione pragmatica, artificiale e dunque contingente: qualcosa di mai concluso e sempre ‘in corso d’opera’. Se oggi l’archivio rappresenta realmente la nostra contemporaneità è perché l’abita il plurale: non ha alcuna pretesa di ritrovare le radici della nostra identità ma, all’opposto, ci aiuta a dissiparla.
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