La storia che lega Jeff Koons al Centre Pompidou non è cosa di ieri…

Già nel 1987 alcune sue opere emblematiche figuravano nella collettiva dedicata a ‘Les Courtiers du désir’ e nel 2000 l’artista partecipava all’esposizione intitolata ‘Au-delà du spectacle’. Il suo ritorno nella stagione 2014/2015, dopo l’exploit dei giardini di Versailles (www.jeffkoonsversailles.com) tra il 2008 e il 2009, assume però un’altra forma, quella della riverenza dell’invitato speciale, corteggiato e chiamato in causa dall’allestimento curato da Scott Rothkopf e Bernard Blistène. La prima grande retrospettiva europea dell’artista americano si propone come un ambiziosa sintesi che esplora i trentacinque anni d’attività artistica di Koons nel tentativo di ‘riconciliare l’arte moderna e la cultura popolare in una celebrazione dei contrari finalmente riuniti’.

Jeff Koons, Centre Pompidou, Paris-dog ©SaraRania

Jeff Koons, Centre Pompidou, Paris dog ©Sara Rania

Ma la grande mostra parigina celebra e pizzica al tempo stesso. Jeff Koons si innalza artificialmente, come i suoi Inflatables ed il percorso della mostra si concentra proprio sul concetto di ‘superficie pura’, senza riuscire a dissipare la nuvola di dubbi che circonda l’artista americano. Parole come idolatria, mitologia e culto della persona ricorrono frequentemente quando si nomina il nome di Koons, Warhol contemporaneo capace di mobilitare, con il suo talento commerciale, frotte di fans e di detrattori riuscendo ‘sempre e comunque’ a far parlare di sé.
Eppure la critica francese non sembra poi così convinta da questo ben congeniato teatrino. Pierre Haski (co-fondatore del magazine online Rue89) firma una tribuna al vetriolo sull’antenna del Nouvel Observateur rue89.nouvelobs.com sparando a vista sull’essenza commerciale del lavoro di Koons, che sarebbe rimasto essenzialmente un vero e proprio trader di se stesso. Emmanuelle Jardonnet di Le Monde www.lemonde.fr non esita a definirlo ‘serial createur’, sottolineando l’evidente riferimento al carattere ripetitivo, ossessivo ed estremamente auto-celebrativo della sua produzione.

Jeff Koons, Centre Pompidou Paris-Made in Heaven ©Sara Rania

Jeff Koons, Centre Pompidou Paris, Made in Heaven ©Sara Rania

In un mondo nutrito di cultura pop degenerata che richiama inevitabilmente il sogno americano e le sue derive, Koons resta un’icona destinata ad estinguersi in un’esplosione di effimera gloria, così come i palloncini laminati ai quali fanno riferimento alcune delle sue opere più famose. Tronfia, lucida, patinata ed immemore, la sua arte ha nonostante tutto il merito di chiamare in causa alcune inevitabili questioni che esulano dal campo squisitamente estetico del gusto per investire la vita intera, alla quale Koons si riferisce costantemente per le sue creazioni. Eppure anche questi rimandi al lavoro collettivo dell’arte e alle numerose fasi del suo lavoro, lungi dal profilare una riflessione sull’atelier e sulla costituzione partecipativa dell’opera, riflettono una creazione tinta di megalomania e lontana da ogni impetus.

Oscillando tra ‘lusso e degradazione’ (da ‘LUXURY AND DEGRADATION’ il titolo della serie del 1986 inspirata ai canoni estetici delle pubblicità degli alcolici, nelle quali l’aumento del grado d’astrazione è direttamente proporzionale all’avanzamento della classe sociale dei clienti) Koons costruisce un nuovo altare allo stesso elitismo che intende criticare ed assurge a quel suadente paradiso kitsch costruito intorno alla plasticità esplicita di Cicciolina.

Jeff Koons, Centre Pompidou Paris, entry ©Sara Rania

Jeff Koons, Centre Pompidou Paris, entry ©Sara Rania

Scevra di pensiero complesso, l’opera di Koons non tiene alcuna promessa e nella terra di Duchamp, glorificato dalla mostra che si svolge in contemporanea e sullo stesso piano del centro artistico parigino, è facile rimpiangere la fontaine e la sua autentica portata sovversiva.

Via | www.centrepompidou.fr

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