Quali sono le qualità che un buon curatore dovrebbe avere? Passare dalla produzione artistica alla curatela può rappresentare un elemento vincente per un curatore? Ne abbiamo parlato con il giovane direttore del Museo d’Arte Contemporanea di Lissone Alberto Zanchetta, il quale è anche professore di Arti Visive alla LABA Libera Accademia di Belle Arti di Brescia.

Ilaria Carvani: So che è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti e prima di intraprendere la carriera di curatore desiderava fare l’artista, come è avvenuto il passaggio?

Alberto Zanchetta: In modo graduale, e per certi versi disinvolto. Mentre frequentavo i corsi a Bologna ho iniziato a procacciare spazi dove proporre i miei lavori e quelli degli amici, sviluppando un particolare interesse per i processi organizzativi, sia quelli teorici sia quelli pratici. Mi lusingava l’idea di fare arte ma ero ancor più affascinato dal “meccanismo di produzione” delle esposizioni. A cavallo del terzo e quarto anno d’Accademia avevo già smesso di realizzare opere e i professori mi giudicavano per le mostre che pianificavo in città.

I.C: Quali sono i punti di forza del curatore che ha alle sue spalle un’esperienza di produzione artistica?

A.Z: Probabilmente ho maturato una maggiore empatia con le opere, oltre che con i loro artefici, ma ho sviluppato anche un’attitudine che non mi pone in competizione né in soggezione con gli artisti. Da parte mia c’è una volontà di assecondare le loro esigenze e soddisfarne le aspettative, senza nulla togliere al piacere di una partecipazione attiva nel concepire e realizzare i progetti. Interpellato sul ruolo del curatore, Harald Szeemann diceva di essere «fiero di avere ancora una visione e, cosa ancor più rara, di piantare spesso io i chiodi», affermazione che mi trova concorde sia nell’uno che nell’altro caso.

I.C: All’estero figure eclettiche come il curatore artista e critico sono molto richieste. In Italia spesso sussiste ancora un pregiudizio nei confronti di chi spazia dalla produzione alla curatela, secondo lei perché e qual è il suo punto di vista a riguardo?

A.Z: In Italia ci sono stati “cattivi maestri” che hanno precluso a un atteggiamento più aperto e solidale. La colpa non è riconducibile al sovrapporsi dei ruoli, bensì alla volontà di prevaricarli; in pratica c’è stato un vizio di forma incentrato sull’ego degli operatori culturali. Personalmente nutro un particolare interesse per gli approcci trasversali e auspico che anche da noi ci sia più margine d’azione per gli artisti-curatori o i curatori-artisti.

I.C: All’interno di un sistema dell’arte in continuo cambiamento, molto influenzato dalla riduzione delle risorse economiche, com’è fare il curatore oggi e quali sono le differenze rispetto a qualche anno fa?

A.Z: Anni addietro molti potevano fare i curatori avendo a disposizione budget di tutto rispetto ma poche idee o nessuna particolare sensibilità negli allestimenti. Oggi invece siamo costretti a confrontarci con sfide continue che mettono alla prova le nostre capacità e resistenze psico-fisiche. Sicuramente ai giorni nostri è più facile riconoscere un curatore da un millantatore… Conosco molti “colleghi” che non si presentano mai agli allestimenti, cosa che mi insospettisce e che mi indispone parecchio nei loro confronti.

Alberto Zanchetta, photo credits Davide di Tria

Alberto Zanchetta, photo credits Davide di Tria

I.C: Passiamo al ruolo di direttore di museo, quali sono secondo lei le caratteristiche che dovrebbe avere per mantenere un equilibrio tra gestione economica e direzione artistica?

A.Z: Amministrare bene le risorse, non solo quelle economiche ma anche umane. Avere un occhio vigile che permetta di mantenere una programmazione costante e articolata nell’arco di tutto l’anno, senza incorrere in buchi di bilancio che comportano uno stallo nell’attività culturale. Si possono fare mostre ed eventi di qualità evitando inutili sprechi. Credo sia un [f]atto di coscienza, oltre che di rispetto, verso il pubblico, gli sponsor, i contribuenti e le amministrazioni.

I.C: Ha mai avuto l’impressione che sia diffusa tra i giovani artisti, ma non solo, una tendenza al citazionismo sfrenato? Come se ci fosse un desiderio di rivivere nel passato e un’incapacità di confrontarsi con il presente.

A.Z: Henri Focillon avrebbe parlato di vie des formes e George Kubler di shapes of time, Giambattista Vico li avrebbe definiti i corsi e ricorsi della storia. L’arte, proprio come la storia, si divide tra chi si ostina a guardare avanti (per timore di essere trasformato in una statua di sale) e chi corre il rischio di volgere il proprio sguardo all’indietro; i primi perseguono unicamente il nuovo, anche a costo di trovarlo insipido, i secondi si avvedono che non si può credere di tagliare la testa al toro e fare tabula rasa – giacché non sono taurine ma teste d’Idra, che ricrescono e non dimenticano. Le nuove generazioni si fanno eredi di un universo di esperienze, di possibilità e di probabilità, che non si sono mai interrotte né esaurite; non per forza c’è in loro un’incapacità di cimentarsi con il presente, più spesso scelgono il confronto contro la mole/molosso del passato, riuscendo talvolta a “tradire la tradizione rendendole tributo”.

I.C: Veniamo alla sua esperienza nella docenza, so che adesso ha la cattedra di un laboratorio ma prima insegnava Storia dell’Arte Contemporanea, quali sono le differenze tra un approccio prettamente unilaterale e uno di tipo bilaterale?

A.Z: All’Accademia di Urbino ho un corso teorico in cui sono previste alcune ore laboratoriali, ma è alla LABA di Brescia che ho lasciato la cattedra di Storia dell’Arte assumendomi l’incarico del corso di Arti Visive. In qualità di responsabile di dipartimento avevo riscontrato una propensione da parte degli studenti a uniformarsi – volenti o nolenti – alle ricerche dei loro docenti-artisti, sono quindi subentrato affinché ognuno di loro potesse sviluppare una propria personalità, approcciando qualsiasi tecnica e stile, senza restrizioni di sorta. Nelle lezioni porto la mia esperienza pregressa, di ex-studente dell’Accademia, e quella di curatore, sempre impegnato nella risoluzione dei problemi con gli artisti, le opere e gli allestimenti. Il corso si pone quindi l’obiettivo di mettere in evidenza e in discussione sia i concetti che le forme espressive, basandosi sull’esperienza diretta; tutti i miei studenti sono impegnati a sviluppare e approfondire il concetto di arte, inteso come atto di affermazione e di responsabilità, ma anche come “ciò che trasforma” (Homo Faber) e che “mette in relazione” (Homo Dialecticus).

I.C: Un’ultima domanda relativa al focus principale di MyTemplArt, l’archiviazione: che tipo di sensibilità pensa che abbiano i giovani artisti verso questo tema?

A.Z: A tale riguardo consiglio la lettura di due libri: il primo è Joachim Schmid e le fotografie degli altri di Roberta Valtorta, il secondo è La collezione come forma d’arte di Elio Grazioli, entrambi pubblicati dalla Johan&Levi in anni recenti. Posto che tutti gli artisti attingono da archivi personali costruiti nel corso degli anni, le nuove generazioni hanno messo in evidenza questa metodologia, alla cui base c’è una (sana) ossessione. L’archiviazione – che può declinarsi in una produzione di conoscenza così come di finzione e alterazione dei dati acquisiti – è una pratica che attiene alle dinamiche museali, permette quindi agli artisti di Essere-Museo loro stessi, ed è proprio in quest’ottica che potremmo rintracciare quella convergenza tra le figure del curatore e dell’artista di cui parlavamo poc’anzi.

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