Fotografia e nuove tecnologie per sfidare i limiti della narrazione visiva. Questa l’idea alla base dell’innovativo ME-MO Magazine – Memory in motions.

Lo scopo, quello proporre una rivista sotto forma di applicazione in cui qualità e impegno possano restituire al giornalismo il rispetto che un tempo vantava. Progetto concepito in tre lingue, italiano, inglese, spagnolo, il magazine trimestrale sfrutta le possibilità delle più innovative tecniche di comunicazione, dai semplici video alle animazioni 3D e le infografiche, per raccontare storie su un tema comune ad ogni numero. Qualità e impegno le parole d’ordine: i fotografi selezionati non solo mostrano grande abilità tecnica, ma anche uno sguardo sensibile, incisivo e critico nel raccontare ciò che vedono. Al momento applicazione supportata esclusivamente da iPad, ME-MO sarà a breve disponibile anche in versione per Android e PC. Oggi incontriamo il redattore capo, Maral Deghati, con la quale potremo approfondire alcuni punti di questo progetto senza precedenti.

Alice Ensabella. Quando e come è nato questo progetto? Quali necessità vi hanno spinto a concepire un prodotto simile?
Maral Deghati. Me-Mo magazine numero #1 è uscito il 19 aprile 2014 ed è stato concepito nel 2011 durante la rivoluzione in Libia quando i miei colleghi si sono incontrati sul campo. Questo terribile conflitto è stato un vero “turning point” per il nostro mestiere, che ha visto nascere una nuova generazione di promettenti fotogiornalisti. Da allora diversi incontri, tanto coraggio, determinazione, integrità, lavoro di squadra e qualche birra hanno contribuito alla creazione del magazine e piattaforma Me-Mo. La frustrazione (nel farsi ascoltare e pubblicare), il nostro spirito naif e ribelle ci hanno spinto verso questa avventura. Vogliamo sostenere gli indipendenti e i loro reportage che spesso non si adattano agli organi della stampa. Vogliamo ridare al giornalismo il rispetto e l’importanza che aveva un tempo, che possa raccontare storie in un contesto storico.

A.E. Come scegliete il tema di ogni numero? Qual è la vostra politica circa la scelta degli artisti?
M.D. Non ci piace la parola “politica”, perché è esattamente contro questa che battiamo. Il nostro magazine è una piattaforma una comunità in cui non esiste gerarchia e totalmente indipendente. Cerchiamo giovani talenti e professionisti attaccati al loro lavoro che propongono progetti a lungo termine che meritano di essere letti, visti e ascoltati integralmente.

A.E. Nella presentazione del magazine si parla di “impegno” e “storie da raccontare”. Pensa che queste caratteristiche manchino nel fotogiornalismo di oggi?
M.D. Soprattutto quello diffuso online? Me-Mo vuole essere un ponte tra i differenti supporti media di oggi. Me-Mo vuole anche essere una piattaforma di condivisione e scambio per costruire una comunità dove il pensiero, il rispetto e l’impegno nell’informazione siano rispettati. Me-Mo userà i new media in favore di un apporto giornalistico più completo, con la precisa volontà di mostrare la necessità di cambiare lo stato attuale, in cui tecnologia è solo sinonimo di velocità e immediatezza dell’informazione. Il nostro mestiere resta lo stesso, per noi non cambierà niente. Il vero cambiamento avverrà a livello editoriale. La nostra forza è l’innovazione e il nostro regalo è il tempo.

Maral Deghati, Courtesy Of Me-Mo Magazine

Maral Deghati, Courtesy Of Me-Mo Magazine, Credits Alfred Yaghobzadeh

A.E. Le immagini che pubblicate sono di altissima qualità. Sono coperte da copyright o, una volta scaricata l’app, si diventa “proprietari” di queste immagini? Come gestite la questione della tutela di queste immagini?

M.D. Come stipulato per ogni numero, le immagini sono coperta da copyright. L’app Me-Mo e i suoi contenuti sono completamente protetti. Si tratta di una buona domanda, che ci poniamo quasi quotidianamente. L’importante è soprattutto restare vigili. Non è il copyright che mi preoccupa di più, ma la costante domanda di fornire gratuitamente le immagini, che è una delle più grandi problematiche del nostro mestiere. Il valore di una fotografia, il tempo e le energie spese dal suo autore non sono mai prese in considerazione.

A.E. A tal proposito, organizzate eventi paralleli al magazine, per esempio conferenze o mostre? Nelle mostre queste immagini sono a tiratura limitata, quindi stampate come fine art? Qual è la vostra posizione circa il limite, se esiste, tra produzione foto giornalistica e opera d’arte? Il vostro magazine in che posizione si trova?
M.D. Me-Mo è dedicato alla creazione di progetti fotografici che raccontano storie durevoli tendendo la mano ad un pubblico il più vasto possibile. Abbiamo iniziato a costruire il nostro team attraverso diverse conferenze (al Front-Line Club di Londra, alla New York School of Arts) e mostre (a Barcellona, Torino, Milano…), dove effettivamente le fotografie sono state numerate e stampate su 10-15 esemplari. A mio avviso esiste un vero limite tra il fotogiornalismo e la fotografia fine art. Come vedrete nel nostro magazine, noi presentiamo al lettore soggetti strettamente giornalistici: articoli, interviste, infografiche, fotografie. In più aggiungiamo un tocco di creatività in cui il fotografo prende la parola per parlare del proprio soggetto alla sua maniera.

A.E. Il primo numero è dedicato alla guerra, il prossimo uscirà fra poche settimane. Possiamo avere qualche anticipazione?
Il tema sarà la disintegrazione. Un giovane talento, un vecchio talento e alcuni soggetti co-prodotti. Per questo secondo numero abbiamo sperimentato la formula di 5 reportage per 5 fotografi per presentare un lavoro di collaborazione sullo stesso tema. Un giovane fotografo presenterà un progetto a cui lavora da diversi anni sul suo paese in piena disintegrazione. Per il resto… acquistate e sostenete Me-Mo!

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