“Il pittore la cui ombra è il viaggiatore” è il titolo di uno dei “Racconti in sogno” di Yves Bonnefoy.

Un pittore non viaggia, non va da un paese all’altro, a meno che, nella sua esperienza dei luoghi, non abbia a cuore il luogo per se stesso: nell’evocare la poetica dell’artista-viaggiatore, il poeta francese parla della necessità del viaggio come superamento di una “soglia”, attraverso la quale tornare all’origine perduta.

La biografia di Saverio Barbaro racconta la vita un pittore-viaggiatore. Nelle diverse esegesi critiche della sua opera, da “artista del reale” come scriveva Raffaele De Grada a “ultimo degli orientalisti” (Romanelli), è possibile identificare i principi regolatori di un percorso artistico che ha sempre indagato il rapporto natura-paesaggio-uomo attraverso la luce, intesa come metafora di conoscenza del mondo, ed il tempo, regolato dall’unità di misura che più si avvicina al ritmo della natura.
La natura come rex extensa, come scriveva Pascal, “spazio infinito e abissale” con cui si confronta la capacità di conoscere (e di comunicare) dell’uomo. Il paesaggio, che affiora dal confronto tra la natura e la storia delle civiltà. L’uomo, nella sua veste più vicina alla natura, più primitiva, per attingere alla sostanza della nostra condizione e per misurare i valori della civiltà occidentale.

Foundation Saverio Barbaro, Verona

Fondazione Saverio Barbaro, Verona

Il senso del tempo di Barbaro non può che essere controcorrente rispetto alle tendenze dei linguaggi artistici contemporanei, caratterizzati da una commistione sempre più forte con forme di spettacolarizzazione mass mediatica, dove il valore fondante dell’arte greca, il saper fare, la techné, assume caratteri sempre meno attuali.
Saverio Barbaro, a novant’anni, è estremamente lucido e non concede nulla ai compromessi dell’arte di oggi. A Verona, nella sua tenuta e negli spazi della Fondazione, ricordiamo gli anni della guerra ed i primi della ricostruzione a partire dal 1950, l’anno della sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia e la vittoria, giovanissimo, del Premio Omero Soppelsa, a cui seguiva la fortunata stagione parigina, grazie alla vincita di una borsa di studio del Governo francese. La lettura di Pierre Loti e Malreaux, l’incontro personale con Matisse, Chagall, Dufy e Picasso avvicinavano Saverio Barbaro alla volontà di conoscere direttamente le terre del colonialismo francese che in epoca romantica aveva affascinato Ingres, Delacroix e tutto il mondo degli orientalistes mentre nella prima metà del ‘900 aveva influenzato fortemente le avanguardie europee. Dopo Parigi per diversi anni l’atelier di Barbaro diventava il Midi delle Francia, come lo era stato per Monet, Cezanne e per un breve frangente anche per Van Gogh, che Barbaro ritrovava qualche anno più tardi nel suo soggiorno olandese, assieme alla grande luce di Rembrandt e Van Eyck che per l’artista veneziano è sempre “una luce per lo spirito, una luce per la conoscenza”. Alla fine degli anni ’50 Barbaro ritornava agli orizzonti del paesaggio mediterraneo della Spagna con i soggiorni a Granada, Madrid, Malaga, per poi raggiungere l’Africa e la Tunisia nel 1964. Dalle rappresentazioni realiste degli anni cinquanta Barbaro arrivava al riconoscimento di una realtà sociale e culturale, quella africana, felicemente rappresentata nelle sue opere a partire dalla metà degli anni ‘60.

Saverio Barbaro, Mulino Rosso, 1957, private collection, MyTemplArt Magazine

Saverio Barbaro, Mulino Rosso, 1957, collezione privata

Ai verdi intensi, i blu ed i grigi del periodo precedente si sostituiscono gli ocra e le terre che evocano l’infinita distesa di rocce e di sabbia del deserto, sempre con l’intenzione di comunicare la verità dello stesso, del sole e del vento, del ghibli e della popolazione che lo abita, della delicatezza e della generosità di una società dalle tradizioni millenarie.
“Andare nel deserto – ricorda Barbaro – significa per me “estrarre”, come astrazione, l’essenza dei popoli e delle genti che vivono in quelle terre; la poesia e la storia di quelle genti che noi conosciamo solo superficialmente, poiché oggi veniamo abbindolati dalle macchie nella pittura, dall’urlo in coloro che cantano, dallo scrivere sgangherato di chi non sa scrivere”.

Saverio Barbaro interviewed by Deianira Amico for MyTemplArt Magazine, MyTemplArt Magazine

Saverio Barbaro intervistato da Deianira Amico per MyTemplArt Magazine

Pur conoscendo la violenza delle guerre e della povertà, Barbaro dipinge un’umanità radiosa: dipingendo l’Africa l’artista dipinge la vita, il dolore alternato alla gioia, la povertà al piacere di vivere. Un piacere che è condizionato da un senso del tempo che è tutto il contrario dell’ossessione della fretta occidentale, è il tempo della poesia, è il ritmo cadenzato del passo di un dromedario.
“Recuperare il tempo per coltivarsi”, per leggere, guardare, capire, confrontarsi è il consiglio che Barbaro rivolge alla generazione di artisti più giovani. Vorrebbe che un giorno si dicesse del suo percorso artistico: “Era un tempo che andava dipingendo l’Oriente ed il Medio-Oriente, e così l’ha rappresentato, nel dolore, nell’amore e nella bellezza”. Come quando Van Gogh scriveva al fratello Theo con una preghiera commuovente di conservare i suoi disegni, perché quei disegni l’avrebbero ripagato, ed effettivamente fu così, lasciando ai posteri una grande bellezza.

 

http://www.saveriobarbaro.it/

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